Rinnegare se stessi
di: Matta El Meskin, (Matteo il Povero)
Il monachesimo è la via
della vera e autentica morte al mondo, cioè a se stessi.
Perciò la comunità monastica nella quale vive è per il
monaco l'arena in cui si sottopone alla morte a se stesso.
Se un monaco si sottopone a questa morte in tutta verità
e sincerità verso Dio, e ogni giorno incomincia a vivere
in Cristo, le porte dell'Amore divino si spalancano
davanti a lui. Quando l'amore divino s'accende nel suo
cuore, allora finalmente la vita in comunità diventa per
il monaco un nuovo mondo di amore in cui fa traboccare la
sua gioia. Perciò, sia che siate giovani, sia che siate
anziani nella vita monastica, riflettete bene: se la
comunità monastica è diventata per voi un luogo di
amore, allora avete segretamente raggiunto lo scopo della
vostra chiamata e la nuova vita. "Il nostro unico
compito è amare Dio e trovare la nostra gioia in quest'amore".
Ma se ancora giudicate e inciampate di fronte agli ordini
delle vostre guide, agli errori dell'anziano e ai peccati
del giovane, allora dovete esaminare ancora la vostra
vocazione e ridiventare monaci da capo.
La vera morte al mondo è crocifiggere se stessi: è una
morte interiore che non dipende dal digiuno, da precetti
o da tanti atti di culto. Dipende piuttosto, prima che da
tutte queste cose, accanto ad esse ed oltre ad esse, dal
rinnegamento di se stessi, dalla compiacenza a rinunciare
a se stessi e dall'abbandono pronto, spontaneo e senza
esitazione della propria volontà. Questa era la via
seguita dai Padri nell'istruire i novizi. Dalla vita di
Samuele il confessore sappiamo che il padre spirituale
gli insegnò a dire: "Sì", "Volentieri"
e "Ho peccato", tutte espressioni piene di
significato. Alcuni Padri avevano l'abitudine di dare ai
loro discepoli ordini assurdi, di insegnar loro a non
obiettare o discutere, per quanto gli ordini potessero
sembrare loro sbagliati: la morte a se stessi infatti è
più importante del successo in un qualsiasi compito.
Se sei un giovane monaco e ti rallegri nella tua
vocazione, nella tua comunità e nella tua nuova vita,
sappi che tutti gli elementi che contribuiscono alla
morte a se stessi e al rinnegamento di sé, tutti gli
elementi che aiutano la graduale distruzione della
volontà propria e delle passioni come il
sopportare l'ingiustizia, le offese e lo scherno, la
noncuranza nei confronti dei tuoi desideri, il disprezzo
delle tue idee, delle tue opinioni e delle tue necessità
primarie, il sopportare le sofferenze e le malattie che
incontri nella vita proprio questi elementi
accendono l'amore divino e ne alimentano il fuoco. Le
porte dell'amore divino sono spalancate per il monaco che
vuole morire a se stesso e non conoscere più la propria
volontà, perché al di là della morte a se stessi nasce
la forza dell'amore, perché il Signore si rivela solo
nei cuori di coloro che si sono abbandonati a lui
totalmente e completamente. "Se uno vuol essere mio
discepolo non conosca se stesso, prenda la sua croce e mi
segua" (Mc 8,34).
Il monaco che cerca il volto di Dio deve ricordare che il
dio dell'uomo naturale è il suo proprio io; quest'uomo
è pronto a sacrificare il fratello, la famiglia e Dio
stesso per soddisfare le proprie passioni e i propri
desideri. Di conseguenza quando si intraprende la vita
monastica inizia una lotta senza riserve tra il proprio
io e Cristo. Prima di essere una guerra aperta, visibile
o tangibile, essa è qualcosa di non definibile e
spaventoso, qualcosa che spesso uno percepisce solo dopo
aver commesso delle gravi colpe nei confronti di Cristo.
Allora ci si rende conto che il proprio io è realmente
impegnato in una guerra con Cristo, cerca di annientarne
la presenza e di sbarazzarsi completamente della sua
persona.
Il monaco deve soprattutto comprendere che il vero culto
reso a Cristo significa morte a se stessi, perché vi
può essere obbedienza a Cristo solo nella rinuncia alla
volontà propria; gli si può rendere onore e gloria solo
in un rifiuto categorico di ogni onore e gloria nei
confronti del proprio io; vi può essere un'autentica
lode a Cristo solo nel ripudio di ogni vanagloria e
autoesaltazione. Il vero amore di Cristo può stare solo
là dove c'è l'odio di se stessi, cioè l'odio della
volontà propria e di tutti i piaceri, le comodità, le
abitudini e le gioie dell'ingannevole schiavitù di
questo mondo.
Allora è chiaro che il culto reso a Cristo consiste nel
rinnegamento di sé e nel non conoscersi dall'inizio alla
fine. Questa morte è totale, non parziale, ed è reale,
non apparente; esiste infatti una morte parziale che
inganna e una morte esteriore che è falsa.
Il monaco deve esaminare con attenzione il processo di
morte del proprio io, perché l'io è pieno di tranelli e
inganni e usa molti stratagemmi disorientanti per far sì
che la morte si presenti come illusione o come forma
esterna: in tal modo esso riesce a prendersi gioco sia
del monaco che di Cristo e a vivere e venire esaltato al
posto di quest'ultimo.
Il monaco deve sempre stare in guardia contro il culto di
se stesso che in realtà è il rinnegamento e il non
conoscere Cristo, qualunque sia poi il posto che occupano
nella sua vita la chiesa, la croce, il vangelo, le
preghiere, le prostrazioni, le lacrime e il battersi il
petto!
L'io è davvero morto quando accetta la propria morte
apertamente e segretamente. Questa condizione è
chiaramente percepita da tutti. Ognuno infatti si rende
conto che un monaco il cui io è morto non ha alcuna
volontà propria, ha abbandonato ogni polemica,
ostinazione, spirito di contraddizione, ogni tranello,
inganno, astuzia, ogni ambiguità, mormorazione, collera;
non chiede più il rispetto preteso per paura di perdere
la propria dignità, perché tutto è buono, tutto gli
reca beneficio e ogni situazione e ogni cosa operano per
il suo bene e la sua edificazione. Tutto questo diventa
naturalmente trasparente e chiaramente visibile, senza
ricercatezza, né ostentazione o parole. Il modo stesso
in cui un tal monaco lavora basta di per sé a proclamare
la divina verità che egli sta avanzando saldamente e
sicuramente lungo la via della morte a se stesso.
D'altra parte, se l'io rifiuta di sperimentare
segretamente la morte, esso comincia a fare qualche passo
sulla strada dell'auto-rinnegamento, così da sembrare
morto a se stesso, anche se in realtà non lo è. Qui la
strada del falso monachesimo si divide in tre sentieri,
ciascuno dei quali è un labirinto senza uscita.
1. Il primo falso sentiero è quello che potremmo
chiamare il grande inganno. In questo stato l'io,
apparentemente morto, è tanto astuto e sleale da trarre
in inganno il suo "padrone" nel compimento
meticoloso di ogni rito e dovere di culto e nell'incitarlo
a sforzi straordinari, a un ascetismo severo e ad altre
fatiche sia in pubblico che in privato. Tuttavia, dato
che non è morto, gli è impossibile prestare culto a
Cristo senza qualche riconoscimento umano. Così escogita
tutti i mezzi possibili per rendere note le sue imprese e
i suoi sforzi, al fine di attirarsi rispetto, onore, lode
e affetto da parte degli altri. Quando li ottiene è
soddisfatto e moltiplica i suoi sforzi, le sue regole
ascetiche e le pratiche. Ma se gli vien meno questa
ricompensa, perde vigore nei suoi sforzi e tentativi e le
sue attività e i suoi atti di culto diminuiscono
considerevolmente.
Questo sentiero ingannevole è estremamente pericoloso; l'anima
infatti è completamente asservita, crede di rendere
culto a Dio, mentre in realtà sta rendendo culto al
proprio io.
Abbiamo chiamato questo sentiero "il grande inganno",
proprio perché chi lo percorre vive la vita intera nell'illusione
di rendere culto a Dio, illusione creata dall'inganno del
proprio io. Può accorgersi del proprio stato solo se
prende atto delle tante specie di peccati segreti che
commette contro Cristo: questi non possono in alcun modo
essere l'opera di un uomo veramente morto a se stesso e
che vive nell'amore divino, formando un solo spirito con
Cristo.
2. Il secondo falso sentiero può essere chiamato l'inganno
esplicito. Qui l'io non può convincere il suo "padrone"
a fare grandi sforzi e così accetta di salvare soltanto
le apparenze, accontentandosi solo dei compiti esteriori,
ma non facendo alcuno sforzo per impegnarsi nel culto e
nella lotta nascosta o negli sforzi spirituali segreti.
Questo tipo di io è manifesto alla persona interessata,
in altre parole: questa conosce se stessa, vede in se
stessa, è consapevole delle proprie infamie e
accondiscende all'inganno di fronte agli altri. Qui l'io
inganna solo gli altri, convincendoli di essere pio e
morto al mondo, ma non inganna il suo "padrone".
Questo è il motivo per cui l'abbiamo chiamato il
sentiero dell'inganno esplicito, mentre abbiamo chiamato
il primo "il grande inganno", dato che in quel
sentiero l'io inganna anche il suo "padrone".
In entrambe queste situazioni troviamo che lo scopo dell'io
che rifiuta di morire per volontà propria è quello di
venir onorato, glorificato e lodato per gli atti di culto
e le preghiere che compie. Questo è uno sfacciato culto
di se stessi e un'usurpazione del diritto esclusivo di
Cristo alla gloria e all'onore.
3. Il terzo falso sentiero possiamo chiamarlo errore
manifesto. Qui l'io non può convincere l'individuo a
intraprendere una qualsiasi attività o a fare qualche
sforzo per rendere culto a chicchessia, perché l'io
preferisce apertamente e chiaramente rifiutare il culto,
lo sforzo spirituale e la preghiera. In questo caso l'io
non chiede onore, gloria o lode con un ingannevole culto
e nello stesso tempo non accorda alcun onore, gloria o
lode agli altri; giunge al punto di negare il bisogno
dell'adorazione stessa e rifiuta il dovere che abbiamo di
faticare nel cammino spirituale, derubando così Dio di
tutti i diritti che l'uomo è tenuto a riconoscergli. Qui
il rifiuto dell'amore di Cristo e la rinuncia ai nostri
obblighi di rendergli culto e amarlo sono diretti e
aperti. L'io qui è smascherato davanti a se stesso e a
tutti nel suo errore e indossa la persona e le azioni del
maligno.
"Le vostre parole sono state dure contro di me
dice il Signore . Ora voi dite: «Come
abbiamo parlato contro di te?». Avete detto: «È
inutile servire il Signore. Che vantaggio abbiamo
ricevuto per aver custodito il suo incarico e aver
camminato come in lutto davanti al Signore degli eserciti?
D'ora innanzi giudichiamo beati i superbi; prosperano
quelli che compiono il male e anche quando mettono Dio
alla prova restano impuniti». Allora parlarono tra di
loro i timorati di Dio; il Signore fece attenzione e li
ascoltò e un libro di memorie fu scritto davanti a lui
per quelli che lo temono e onorano il suo nome. Essi
saranno miei dice il Signore degli eserciti
mia speciale proprietà nel giorno che io preparo, e io
farò grazia ad essi come un uomo fa grazia al figlio che
lo serve. Allora ancora una volta potrete distinguere tra
il giusto e l'empio, tra chi serve Dio e chi non lo serve"
(Mal 3, 13-18).
Nella vocazione monastica non c'è quindi possibilità di
scelta tra il morire o il non morire a noi stessi:
infatti o c'è la morte a se stessi, oppure c'è il
fallimento completo nella vita monastica, che terminerà
con la condanna e l'inimicizia da parte di Dio. O moriamo
a noi stessi e allora perseveriamo con Cristo e viviamo
con lui nello spirito giorno per giorno, ora per ora,
momento per momento, mentre il suo amore arde in noi
finché raggiungiamo il cielo; oppure non moriamo a noi
stessi, preferiamo essere indulgenti con il nostro io,
onorarlo, lodarlo, glorificarlo e fargli festa, e allora
indirizziamo ogni nostro culto, ascetismo e preghiera a
onore dell'io, facendo cosi allontanare per sempre il
vero Cristo dall'anima. Verrà allora il giorno in cui il
monaco si renderà conto di aver invano faticato nella
sua vita a onore di un falso Cristo, che in realtà non
era altro che il proprio io, che adorava e al quale
rendeva culto.
L'autentico monachesimo è la pratica della morte
radicale a se stessi, cercando di spezzare tutte le
strade che conducono al proprio io, così che non possa
mai più risorgere e rivivere. Se la morte a se stessi
fosse un processo il cui compimento dipendesse unicamente
dalla volontà personale e dalle capacità umane, sarebbe
impossibile da realizzare, perché l'io è più forte
della ragione e della volontà e le pone a suo servizio.
Inoltre l'io coincide con l'uomo stesso quando questi
lascia via libera agli istinti naturali.
Ma la morte a se stessi nella vita con Cristo è un
processo compensativo: come prima cosa riceviamo in
anticipo la forza di morire a noi stessi, prima che ci
sia chiesto di intraprendere un atto di volontà. Questa
forza è la forza della croce, cioè della morte
volontaria a se stessi. È una grande forza mistica, che
Cristo personalmente sperimentò per primo e ci trasmise
come un libero dono di grazia. Così per essa noi
sappiamo con Cristo morire al mondo e il mondo può
morire a noi stessi. Questa forza di Cristo, cioè la
grazia della croce, non ci è trasmessa da sola, priva
del pegno della gloria: ci è dato infatti di pregustare
la vita eterna, e questo è il più delizioso dono di
Cristo. Perciò la morte a se stessi e al mondo a causa
dell'amore di Cristo ha sempre bisogno di questi due
elementi di supporto: la forza della croce, per far
morire l'io facilmente, e la pregustazione della vita
eterna che è pegno della risurrezione, per consolarci
nel faticoso processo della morte dell'io. La morte a se
stessi è perciò diventata facile e dolce, nonostante la
sua difficoltà e asprezza, per coloro che senza paura
intraprendono la via della rinuncia radicale a se stessi
e alla propria volontà a causa e per amore di Cristo.
Può questa verità incoraggiarci a subire senza timore
la morte a noi stessi?
Nessuno pensi che il processo della morte dell'io sia
complesso, ricco di misteri o gradi differenti. Non può
essere! È estremamente semplice, non è altro che la
determinazione della persona di affidare l'intera sua
vita in ogni particolare, il passato insieme al presente
e al futuro, senza esitazione nelle mani di Cristo,
rinunciando così per sempre ai propri desideri, come un
bambino affida con amore al padre quanto di più caro
possiede, sicuro di ricevere in cambio qualcosa ancora
migliore. Consegnamo a Cristo il nostro "io"
impuro e mondano e la nostra volontà stupida e folle e
al loro posto riceviamo l'Io stesso e la vita di Cristo,
mentre egli ci trasporta sulle ali della sua santa
volontà.
Come sono dunque beati quelli che sono morti a se stessi!
Chi infatti è morto a se stesso non teme di perdere
proprio più nulla nella sua vita, perché ha già perso
tutto: l'io è, per così dire, tutto ciò che appartiene
all'uomo sulla terra. Costui non teme più nemmeno la
morte perché le si è sottoposto deliberatamente, invece
di doverglisi sottoporre prima o poi contro
la propria volontà.
L'io che non è morto chiede sempre di essere innalzato
al di sopra degli altri, specialmente delle guide e di
chi ha degli incarichi, cercando di stupire gli altri con
la simulata condiscendenza nei confronti dei deboli, per
accattivarsi la loro simpatia e la ammirazione della
gente ed essere così elevato sopra gli altri. Si serve
anche della carità, dell'offerta di doni, della cortesia,
dell'adulazione e della difesa degli oppressi in modo da
distinguersi dagli altri e apparire diverso dalle
ingiuste, negligenti, vili e stupide guide: l'io le
dipinge di fronte agli altri con queste tinte, in modo da
apparire più virtuoso di loro.
Ricordatevi di tutto questo e siate vigilanti su voi
stessi. Esaminate scrupolosamente i motivi dei vostri
straordinari digiuni, preghiere, veglie, dei molti e
importanti gesti di servizio, della vostra straordinaria
umiltà o della volontà di offrire voi stessi totalmente.
Fate bene attenzione che tutto ciò sia solo a causa del
vero e fedele amore di Cristo e non abbia come scopo la
gratificazione personale, l'essere onorati e rispettati
dalla gente.
L'io che non è morto cerca sempre di evitare le
occupazioni e le situazioni che potrebbero rivelare la
sua debolezza. Si trattiene perciò dall'accostarsi a
tali compiti ricorrendo a scuse svariate, come la
mancanza di esperienza, l'inadeguatezza dei fratelli o la
malattia. Può anche arrivare a chiedere un tempo di
solitudine e di silenzio per evitare quelle situazioni e
non lasciar trasparire i propri difetti.
Guardatevi dunque dal seguire il vostro io e dal
nascondere le sue imperfezioni, per non perdere l'occasione
di purificare le vostre infermità, anche se sono all'inizio;
chi infatti svela le sue debolezze fin dal loro nascere
acquista al loro posto la vera umiltà e toglie per
sempre di mezzo l'orgoglio. Chi invece nasconde i propri
difetti, vivrà con essi per sempre. Meglio perciò
subire la vergogna in questa vita che non nell'altra,
davanti agli angeli e ai santi!
L'io che non è morto non può sopportare di essere
disprezzato, insultato, giudicato indegno o sminuito. Se
lasciate ancora spazio a sentimenti di astio o di
amarezza, in relazione al modo in cui siete trattati da
un padre, da un fratello, da un superiore o da un
inferiore, voi venerate ancora voi stessi e l'amore di
Cristo non è ancora penetrato nel vostro cuore. L'uomo
infatti il cui io è stato crocifisso con Cristo ed è
morto, non solo è contento di sopportare sdegno, insulto,
scherno o ingiustizia, ma addirittura li desidera
ardentemente.
L'io che non è morto non può sopportare di ricevere
ordini o direttive da uno che gli è inferiore per
cultura, età o stato; questo infatti gli sembra un
attentato ai suoi diritti, alle sue capacità, al suo
rango. L'uomo il cui io è morto, invece, si considera
all'ultimo posto, senza alcun diritto, né capacità, né
posizione sociale.
L'io che non è realmente morto a se stesso trova da un
lato molto facile scegliere per sé l'ultimo posto, ma, d'altro
lato, non può sopportare che altri gli assegnino un
posto appena inferiore a quello che lui considera come la
sua giusta posizione. Questo io vive palesemente in modo
conforme a un falso vangelo: per lui infatti l'adempimento
del comandamento sta nel servire i propri interessi e non
nell'obbedienza ai comandamenti di Cristo.
Ricordate sempre che chi sceglie l'ultimo posto è
provato con il fuoco e che, secondo le parole di Isacco
il Siro, "colui che umilia se stesso per essere
onorato dagli uomini, Dio lo smaschererà". Il segno
invece che l'io è morto è il suo amore e il suo
desiderio per l'ultimo posto: egli non lo ricerca, per
timore di vanagloria, ma aspetta che gli venga assegnato
dagli altri!
Se l'io che non è morto non è onorato dai membri della
comunità, o è disprezzato da essi, allora odia pregare
con loro e non può sopportare di stare in mezzo a loro o
di cantare inni insieme e cerca sempre di evitare, per
quanto possibile, queste situazioni. Ciò rivela che le
sue preghiere e i suoi inni riguardano il suo onore e non
quello di Dio o l'amore di Cristo. Si vede così quanto
può essere falso il culto a Dio! Quanto invece all'io
che è morto, per lui la comunità è un luogo di amore,
vita, gioia e lode a causa della presenza del Signore. L'anima
che ama i fratelli ha attraversato la morte ed è giunta
alla vita, perché il Signore è sempre presente in mezzo
alla comunità.
Un monaco può non riuscire a mettere radicalmente a
morte il proprio io e così essere incapace di trovare la
via stretta. Per una tal persona, quanto più aumenta la
sua conoscenza, tanto più ardua diventa la sua salvezza;
quanto più si addentra nei segreti della virtù, sia per
quel che legge che per quel che ascolta, tanto più
diventa incapace di praticarla, poiché il suo io, che
non è stato spezzato, lo inganna appagandolo con la
conoscenza, quasi questa potesse sostituire le sue opere.
Ciò accade perché l'io sa bene che il compimento delle
vere opere ha come sicura conseguenza la sua morte ed
egli non vuole morire! L'io inganna il monaco e lo illude,
facendogli credere di possedere tutte le virtù dei santi
di cui legge la vita e di non aver bisogno di sforzarsi o
di compiere alcunché, perché è già perfetto. Non
appena sente parlare di qualche virtù o opera buona
pensa di possederne anche di migliori, perché l'io fa
suo tutto ciò di cui sente parlare e lo rivendica per
sé. Quest'uomo si inebria dell'amore di sé, loda se
stesso di fronte agli altri e ne provoca gli elogi.
Secondo lui, nessuno è alla sua altezza e ognuno ha
capacità inferiori alle sue. Se possiede un difetto
evidente, lo imputa agli altri o alle circostanze; se ne
possiede uno di nascosto, lo tiene segreto anche al
proprio padre spirituale. Se commette un errore senza
essere visto, insiste che gli altri sono i colpevoli e se
è colto sul fatto tira fuori un sacco di scuse per
provare la sua innocenza. Per lui, i suoi peccati sono
leggeri, mentre gli sbagli degli altri sono crimini
imperdonabili. Esprime rammarico solo per evitare
critiche e chiede scusa solo per conservare la propria
posizione. A poco a poco il pentimento diventa per lui
una debolezza e lo scusarsi una vergogna.
Se non volete essere così, cercate fin dal primo momento
della vostra vita monastica di mettere in atto,
sperimentare e praticare solo ciò che è fonte di virtù
e non le opere o gli scritti degli altri. Imparate come
esporre con semplicità il vostro io a tutto ciò che
può metterlo sotto il potere della croce, perché questa
è la morte volontaria, in modo da intraprendere la via
della virtù attraverso la porta della croce e non
attraverso quella della ragione. Cercate anche di mettere
in pratica quel che predicate e di parlare solo di ciò
che avete sperimentato, non di quello che avete letto o
di cui avete sentito parlare; come dice Paolo, "Noi
ci vantiamo indebitamente di fatiche altrui" (2Cor
10,15); "Non che da noi stessi siamo capaci di
pensare qualcosa come proveniente da noi" (2Cor 3,5);
"Perché nessuno mi giudichi di più di quello che
vede o sente da me" (2Cor 12,6); "Perché non
colui che si raccomanda da sé viene approvato, ma colui
che il Signore raccomanda" (2Cor 10,18).
È possibile anche che un monaco perda la capacità di
mettere a morte il suo io quando è ormai a metà strada,
dopo aver assaggiato e preso parte ai doni di Dio. Ma la
brama di conoscenza si impadronisce di lui ed egli
desidera diventare uno studioso dei misteri dello Spirito,
cercando la gloria mondana e abbandonando il confortevole
seno di Dio e quella semplicità che introdusse i
pescatori di Galilea al libero dono della sapienza dello
Spirito. Tale monaco si smarrisce dalla via della
salvezza dopo essersene mostrato degno e questo lo rende
costantemente nostalgico del passato e lo fa sentire di
giorno in giorno sempre più smarrito e disorientato.
Egli non ha però la forza di tornare sui propri passi,
perché il suo io si è ora insuperbito a causa delle
conoscenze raggiunte e la via stretta è in realtà
diventata per lui gravosa e ripugnante. Le opere di
penitenza di un tempo diventano per lui amare e aspre
perché l'io si è gonfiato a causa del sapere. Così,
pensando che tornare sui propri passi è così difficile
da sembrare impossibile, s'inoltra di giorno in giorno
lungo vie sempre più perverse e scivolose. Il problema
di un io siffatto è che si vergogna sempre di se stesso.
Accetta facilmente la lode, ma poi la rivomita, quando si
ricorda della propria debolezza e dell'umiltà di un
tempo. Ama l'onore, ma non vi trova alcun conforto. Le
cattedre dell'insegnamento sono estremamente allettanti,
ma sedersi su di esse è immediatamente motivo di pena, a
causa dell'amaro rimorso per il passato di umiltà. L'io
si rende conto che la volontà propria mette radici e che
questo costituisce un insulto alla volontà di Dio, ma la
dolcezza del frutto della disobbedienza e la bellezza
dell'albero della ribellione non lasciano vedere le loro
conseguenze. E così l'io assapora lo smarrirsi lontano
da Dio, fino a quando, alla fine, si desta unicamente per
constatare di essere completamente fuori strada, lontano
dall'albero della vita e anche dall'albero della
conoscenza.
Se dunque volete restare al sicuro fino alla fine sulla
strada della morte a voi stessi, seguite la via stretta
del pentimento, fino al giorno della morte. Non siate
sedotti dal sapere, che vi rende sicuri di voi stessi. Al
contrario aggrappatevi alla semplicità, che conduce alla
profonda sapienza dello spirito. Fate della confessione
delle colpe la vostra occupazione redditizia, e non
muovete nemmeno un passo sulla via del sapere spronati
dal desiderio della gloria mondana, se non volete
precipitare, ancora giovani, nell'abisso.
Esiste un tipo di io che non è morto a se stesso il
quale, quando la conoscenza legittima gli risulta troppo
difficile da portare, arso com'è dalla fama mondana a
basso prezzo, dà via libera al suo padrone, inducendolo
insistentemente a diventare un ladro al servizio del
proprio io, rubando per lui non oro o argento, ma i detti,
le azioni e i pensieri dei Padri, prendendoli dai loro
libri o dalle loro labbra e attribuendoli a se stesso,
così da essere lodato per cose che non gli appartengono.
Si illude di dar gloria a Dio. "Ma se per la mia
menzogna la verità di Dio risplende per sua gloria,
perché dunque sono ancora giudicato come peccatore?
[...]. Come alcuni [...] ci calunniano dicendo che noi [così]
affermiamo" (Rm 3,7-8). Questo io rende infelice il
suo padrone, poiché, senza che egli se ne renda conto,
lo opprime con molti peccati e iniquità che non sono
meno gravi di quelli commessi da un delinquente comune,
mentre appare agli altri un ministro della virtù e un
rappresentante della rettitudine.
Vigilate dunque e siate ben attenti alla mortificazione
del vostro io. Condannatelo prima che vi condanni.
Privatelo di quanto gli appartiene, così che non possa
usurpare ciò che appartiene agli altri. Poiché se
queste cose sono insopportabili e riprovevoli per una
coscienza libera, quanto più lo sono per Dio!
Esiste un tipo di io tirannico, astuto e ingannatore che
domina e rende schiavo il suo padrone allo stesso modo in
cui un ipnotizzatore rende schiavo chi è in suo potere.
Lo sprona con continui incitamenti ad avere visioni e
sogni durante il sonno, tutti frutto delle macchinazioni
dell'io, in complicità con le sue passioni e le sue
aspirazioni. Essi sembrano tutti facilmente applicabili
agli eventi quotidiani, e armoniosamente connessi, quasi
fossero reali. L'individuo si sveglia solo per credere di
essere diventato un santo durante la notte! Comincia a
dire in giro le sue visioni e i suoi sogni altamente
significativi e tutti sono stupefatti da questo io, lo
lodano e lo glorificano come se fosse un santo dotato di
doni di illuminazione, rivelazione e profezia. Egli così
si illude ancor di più, convinto com'è che sia tutto
vero, mentre in realtà è tutto opera di autosuggestione
per mezzo di concetti mentali e fantasie imposti all'animo
debole dall'ambizioso io. Questi costringe la mente a
rappresentare, nel sonno o nel dormiveglia, con logica
sorprendente, ciò che egli desidera, o ciò che teme, a
tal punto che l'io sembra possedere una natura superiore
a quella delle altre persone e soddisfà così la sua
ambizione. Quando l'io non riesce a tenere sotto
controllo il suo padrone, così da soddisfare le sue
brame con opere, parole e capacità pratiche, lo
costringe a usare concetti mentali in sogni o visioni di
estrema chiarezza, così da compiere ciò che non è
riuscito a fare nella realtà tramite le capacità e
risorse pratiche e così che l'io sia glorificato in ogni
modo e a ogni costo.
Siate dunque attenti e vigilanti fin dall'inizio. State
in guardia contro gli ingannevoli trucchi dell'io e le
sue ambizioni e speranze, perché se riesce a sfuggire
alla morte nonostante la vostra vigilanza, in realtà
comincerà a vivere nelle visioni e nei sogni, comandando
a tutti i talenti dell'anima e della mente di lavorare
per la sua definitiva lode e glorificazione quale io
soprannaturale. Solo un rifiuto totale sia delle visioni
che dei sogni può impedirgli di procedere su questa
strada; tuttavia, per assicurare il vostro progredire
lungo la stretta via della salvezza, è possibile che
visioni e sogni siano concessi a quelli la cui statura
spirituale è elevata e la cui salvezza non corre
pericolo.
L'io che non è morto odia ed evita la confessione,
perché la confessione lo condanna e lo espone. Ma l'io
che è morto o è disposto a morire, trova conforto nella
confessione e la ricerca con gioia, superando ogni
ostacolo, perché nella confessione viene purificato e
purificato nuovamente, fino a diventare candido.
L'io che non è stato messo a morte, se decide di non
morire, nasconde i propri difetti nella confessione.
Comincia allora a diventare aggressivo nei confronti
della confessione e del suo confessore, accusandolo di
ignoranza, trascuratezza o parzialità e fa di questi
pretesti una barriera definitiva che gli impedisce di
esporre i propri difetti.
L'io che non è stato messo a morte e che ha deciso di
non morire non trova vantaggio nelle parole o nei
consigli del padre spirituale, anche se questi fosse lì
a consigliarlo ogni giorno e ogni ora. Le sue parole
diventano per lui un peso insopportabile. Ma l'io che è
morto, o che è pronto a morire, a una sola parola del
padre spirituale si lancia lungo la via della vita eterna
e corre senza stancarsi; le parole di rimprovero gli sono
dolci come il miele.
Coraggio, fratelli! Ecco, lo Sposo
che amiamo ma non possiamo vedere viene
come un ladro nel mezzo della notte per sorprenderci.
Vegliamo dunque per poterlo ricevere e beato colui che
Egli troverà vigilante.
la presente meditazione è estratta
dallantologia di scritti di Matta el Meskin dal
titolo Comunione nellAmore curata dalla Comunità
di Bose ( pagg. 127-140 ) Edizioni Qiqajon 1986 - Magnago
VC
Matta El Meskin, (Matteo il Povero)
al secolo Yusuf Iskandar (1919 2006), è stato un
monaco egiziano, igumeno del monastero di San Macario il
Grande, deserto di Scete, dal 1969 alla morte. L'igumeno
Matta El Meskin non è solo una delle maggiori figure
della storia contemporanea della chiesa copta ortodossa
ma anche un autore spirituale noto e apprezzato in tutto
il mondo, tradotto in quattordici lingue.
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