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Essere e Vivere da Cristiani


L'unica cosa che è necessaria

"Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli rese duro il suo volto incamminandosi verso Gerusalemme." (Luca 9,51)


Frase contorta e oscura, questa di Luca, che noi abbiamo parzialmente lasciata nel tenore greco originario. Innanzitutto ricordiamo che qui – stando alla struttura del terzo Vangelo – inizia la lunga marcia che condurrà Gesù alla città del suo destino terreno finale e che occuperà quasi dieci capitoli del racconto di Luca (da 9,51 a 19,28). Viaggio, certo, geografico-spaziale, ma anche simbolico-spirituale. L’evangelista definisce fin dall’inizio la meta e la esprime con una sola parola greca, análempsis, da noi tradotta in modo esplicativo, “essere elevato in alto”.

L’antica versione latina, la Vulgata di san Girolamo, aveva semplicemente e letteralmente dies assumptionis, cioè “i giorni dell’assunzione/ascensione” del Risorto, evento che Luca descrive sia in finale al suo Vangelo (24,50-53), sia in apertura alla sua seconda opera, gli Atti degli Apostoli (1,6-11). Effettivamente l’ascensione al cielo è un modo per rappresentare la gloria della risurrezione; l’umanità di Cristo ha avuto il suo svelamento supremo nella morte e sepoltura; la sua divinità si mostra nuovamente nel suo splendore con l’“assunzione” al cielo che è il segno dell’infinito e dell’eterno di Dio.

L’evangelista Giovanni vede, però, questa epifania divina del Figlio compiuta già mentre egli è sulla croce: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (12,32; si leggano anche questi altri passi giovannei: 3,16 e 8,28). Perciò, possiamo dire che la meta ultima dell’itinerario di Gesù a Gerusalemme è sia il Calvario, cioè la morte e risurrezione, sia il monte degli Ulivi o dell’ascensione. Per raggiungere questo punto terminale decisivo nel quale si riveleranno in pienezza l’umanità di Cristo e la sua divinità, è necessaria da parte di Gesù una scelta forte e radicale. Essa è formulata nell’originale greco di Luca con un’espressione curiosa: Gesù «fece una faccia dura».

La locuzione, che è un po’ simile alla nostra quando parliamo di una “decisione ferrea”, riflette in realtà il linguaggio profetico, in particolare quello di Ezechiele che a più riprese usa l’immagine del «fissare la faccia verso Gerusalemme» (21,7), mentre il Signore gli dichiara: «Ecco, io ti do una faccia indurita quanto la loro faccia» (3,8). Siamo, quindi, di fronte a una svolta nella vita di Cristo: egli, sulla base della profezia che è quasi la lampada che illumina la sua missione, si avvia al compimento della volontà del Padre con una scelta determinata e cosciente.

Egli non è vittima rassegnata di eventi esteriori che lo superano e lo condizionano. Gesù sa che, all’interno dei giochi di potere che compongono la storia, si dipana un progetto superiore del quale egli è protagonista. Ed è Gerusalemme la città del “compimento” di questo disegno di morte e di vita, di sofferenza e di gloria, di male e di redenzione, che egli accoglie e attua con determinazione e fermezza. to ribadisce: «Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo» (Luca 14,27). E non è detto che sia meno impegnativo portare la propria croce ogni giorno rispetto all’atto estremo del martirio. È un po’ quello che affermava Pirandello in un suo dramma, Il piacere dell’onestà (1917): «È molto più facile essere un eroe, che un galantuomo. Eroi si può essere una volta tanto; galantuomini, si dev’essere sempre».



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