In
Dialogo il Teologo Risponde
a
cura della Facoltà
Teologica dell'Italia Centrale |
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«Aspetto
la resurrezione dei corpi»: come sarà la vita
eterna?
Mi
permetto di riproporre una questione teologico/dottrinale.
Il Credo post Vaticano II adopera la formula
«aspetto la resurrezione dei morti»; quello
precedente si esprimeva «credo
la
resurrezione della carne». A mia memoria, nei
decenni preconciliari la Chiesa, ritengo sulla
scorta di quellarticolo di fede, condannava
la cremazione delle salme. Adesso la consente. Ed
è un primo interrogativo. Ma, ben più
consistente e decisiva è la questione implicata
dalla fede nella resurrezione dei corpi: la vita
eterna si prospetta, allora, come una
prosecuzione senza fine della vita terrena,
liberata dal male e quindi dal peccato e dal
dolore?
Risponde don Gianni Cioli, docente di Teologia
morale alla Facoltà teologica dell'Italia
Centrale. |
Prima di rispondere è
opportuno premettere alcune precisazioni. La
formulazione del Credo in cui si afferma
«aspetto la resurrezione dei morti» non è
affatto un «Credo post Vaticano II». Si tratta,
al contrario, di una formulazione risalente al IV
secolo, denominata Simbolo niceno-costantinopolitano
in relazione ai due Concili di Nicea (325) e
Costantinopoli (381) nellambito dei quali
fu redatta. Nella liturgia latina precedente la
riforma del Vaticano II questa la formulazione
era utilizzata nelle Messe solenni, come ben sa
chi frequenta il canto gregoriano.
Laltra formulazione a cui il lettore fa
riferimento e nella quale si dice «credo ... la
resurrezione della carne» è invece il Simbolo
degli Apostoli, che non risale in vero agli
Apostoli stessi, ma è comunque più antico del
Simbolo niceno-costantinopolitano: si ritiene che
possa risalire, almeno in alcune sue parti, al II-III
secolo, sebbene non vi siano attestazioni scritte
dellintero Simbolo precedenti il IV secolo.
Questo Simbolo, per la sua maggiore brevità, è
stato spesso preferito dai redattori dei
catechismi per essere inserito fra le formule da
mandare a memoria. Esso era in effetti presente,
tradotto in italiano, anche nel catechismo di San
Pio X, assai diffuso e memorizzato prima del
Concilio Vaticano II. Il Simbolo niceno-costantinopolitano
invece, è diventato forse maggiormente familiare
nella traduzione italiana ai più, con la riforma
liturgica e la Messa in italiano, dopo il
Concilio. Ma, come si può facilmente comprendere,
le due formulazioni, entrambe antiche e
utilizzate dalla Chiesa fin dallantichità,
sia nelle trasmissione della dottrina che nella
preghiera liturgica, non esprimono affatto, una
cambiamento dottrinale o di sensibilità relativo
al prima e al dopo il Vaticano II.
Per quanto riguarda la posizione della Chiesa
sulla cremazione si deve certo riconoscere, con
il lettore, che la fede circa risurrezione (che
la si definisca «della carne» o «dei morti»
forse non fa molta differenza) ha giocato un
ruolo rilevante. Infatti, se nellimmaginario
precristiano la distruzione del corpo col fuoco
poteva essere compresa come unopportunità
di liberazione e purificazione dellanima,
nella sensibilità cristiana linumazione
intendeva piuttosto esprimere lattesa della
risurrezione. Per la fede dei primi cristiani,
come attesta Paolo in 1Ts 4,13, i morti erano
«coloro che dormono», ovvero giacciono in
attesa di risorgere al momento della «venuta del
Signore» (1Ts 4,16).
La riflessione dei Padri della Chiesa chiarì che
leventuale incenerimento del cadavere non
limitava in nessun modo lonnipotenza di Dio
nelloperare la risurrezione. La presa di
distanza della Chiesa dei primi secoli dalla
cremazione non era dunque dipesa da
considerazioni su supposte condizioni necessarie
per la risurrezione, bensì da valutazioni di
carattere simbolico ed espressivo: il corpo
veniva collocato in una posizione che evocava il
sonno, ed era oggetto di rispetto in attesa del
suo risveglio nella speranza della gloria futura.
Se guardiamo alla storia della cultura funeraria
cristiana, notiamo tuttavia che il giudizio sulla
cremazione è cambiato nel tempo. Grosso modo
possiamo distinguere infatti quattro periodi: 1)
quello della Chiesa primitiva, che si è
distaccata dalla prassi pagana dellincenerire
i cadaveri, optando per la sepoltura, in
continuità con il costume giudaico che non
conosceva la cremazione; 2) quello che va dal IV
al XIX secolo, durante il quale la prassi della
cremazione era contemplata nellambito della
cristianità in situazioni di emergenza, come nei
casi di epidemia; 3) quello caratterizzato da un
atteggiamento di netta condanna, maturato verso
la fine del sec. XIX, in opposizione al favore
accordato alla pratica dalla massoneria in
ostilità alla Chiesa; condanna espressa a più
riprese e, per così dire, condensatasi nei
canoni 1203 e 1240 del Codice di Diritto Canonico
del 1917, con cui si negavano le esequie
ecclesiastiche a chi avesse optato per la
cremazione; 4) infine, quello attuale inaugurato
dallIstruzione Piam et constantem
promulgata dalla Sacra Congregazione del SantUffizio
il 5 luglio 1963 e caratterizzato da un
atteggiamento ben riassunto dal can. 1176, § 3
del Codice del 1983, attualmente in vigore: «La
Chiesa raccomanda vivamente che si conservi la
pia consuetudine di seppellire i corpi dei
defunti; tuttavia non proibisce la cremazione, a
meno che questa non sia stata scelta per ragioni
contrarie alla dottrina cristiana»; posizione
ripresa recentemente dallIstruzione della
Congregazione per la Dottrina della Fede Ad
resurgendum cum Christo del 2016, nella quale si
è inteso ribadire e motivare che «la Chiesa
continua a preferire la sepoltura dei corpi
poiché con essa si mostra una maggiore stima
verso i defunti» (n. 4).
La nuova posizione della Chiesa sulla cremazione
a partire dal 1963, nel clima segnato dal
Concilio Vaticano II, non è certo dipesa da
mutamenti dottrinali circa il modo di intendere
la risurrezione; piuttosto può essere intesa,
questo sì, come uno dei segnali di un nuovo modo
di porsi della Chiesa di fronte al mondo, nel
segno del dialogo piuttosto che dello scontro. Latteggiamento
che emerge non è più quello sanzionatorio, che
mira a difendere la fede comminando pene a chi
agisce contro la prassi tradizionale, ma è
piuttosto quello di chi si pone in ascolto per
comprendere le ragioni di chi agisce e operare un
discernimento.
Sulla seconda questione posta, ovvero su come
intendere la vita eterna in rapporto alla
risurrezione, sottoscrivo volentieri lidea
conclusiva del lettore di una vita «liberata dal
male e quindi dal peccato e dal dolore», mi
convince invece meno il definire la vita eterna
«come una prosecuzione senza fine della vita
terrena». Senza addentrarmi in argomentazioni
complesse, riporto quanto, a questo proposito,
dice lo stesso Gesù ai sadducei in Lc 20,27-40,
laddove riaffermando la verità di fede della
risurrezione dei morti, pone certo la vita futura
in continuità con quella presente, ma ne mette
anche in evidenza gli elementi di discontinuità:
«I figli di questo mondo prendono moglie e
prendono marito; ma quelli che sono giudicati
degni della vita futura e della risurrezione dai
morti, non prendono né moglie né marito:
infatti non possono più morire, perché sono
uguali agli angeli e, poiché sono figli della
risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti
risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito
del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di
Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non
è dei morti, ma dei viventi; perché tutti
vivono per lui».
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